Sergio Bettini: Idea di Venezia

Il luogo comune che considera Venezia, dal punto di vista estetico, come una forma conclusa, come un museo, si dice, che può essere soltanto oggetto di contemplazione, non di immediata partecipazione (cioè di identificazione del suo spazio con il nostro tempo in atto) è frutto di un equivoco romantico, lo stesso equivoco che impedisce a gran parte della critica legata alle categorie metafisiche del ‘800 di comprendere davvero le arti non clasiche – e che ha impedito di rendersi conto della verità artistica di Venezia. Nessun’altra nobile città al mondo ha avuto ed ha tante e così diverse interpretazioni. La spiegazione risiede nella forma, nella stessa struttura formale di Venezia – tutta costruita dall’uomo a cominciare dallo stesso terreno. I primi abitanti in queste isole trovarono una natura priva di plasticità, solo acqua e aria: elementi puri, immateriali, di colore, illimitate come dimensioni – sono puri valori qualitativi, che non possono essere formati, cioè dominati e composti, che nell’ordine del tempo. Quel che mancava alla sua forma nascente, era il dato di partenza di ogni altra città costruita dall’uomo, cioè il limite spaziale: il punto di riferimento, che Riegl avrebbe definito “tattile”. In rapporto ad una morfologia artistica, le distese delle acque e del cielo non sono che superfici quasi assolute, di colore, non plastiche dunque. Questa prepotenza del Kunstwollen di Venezia, nel suo insieme, è infrangibile: sottomette a sé qualsiasi apporto esterno.

Tutto a Venezia diviene superficie e colore, tutte le “pareti” della città si saldano in una continuità de colore e di ritmo: percorrendo il Canal Grande, nei punti dove vi sfociano i canali minori, i palazzi d’angolo hanno il fianco disposto obliquamente, i canali laterali, poco prima dello sbocco, sono spesso cavalcati dai ponti, lo stesso Ponte dei Sospiri, il Ponte di Rialto non è perpendicolare alle rive, ma obliquo… tutto per saldare l’unità della superficie e la continuità dell’immagine.

Venezia dovette affacciarsi all’acqua – dunque il suo segno più significante e di maggiore carico formale fu la facciata (un sistema non di volumi e di piani ma d’ombre e di luci, d’incisioni e di rilievi): tutta la trama urbana si linea lungo i canali e questo segna intera civiltà di Venezia. Il costruttore veneziano ha pensato soltanto, fissando la sua immagine in un punto provvisorio perché investito dal “tempo”, agli effetti di uno spazio che per lui è solamente luce: vale a dire ad innalzare le superfici sulle quali la luce possa agire: una luce che assorbe l’ossatura e la fonde in una struttura nuova: di liquidi, di fiamme, dove si agita raddoppiata dai riflessi dell’acqua, la bilancia dei pesi e delle sostanze.

Soltanto all’arte è concesso di farci cogliere la vita reale attraverso l’apparenza che essa ci offre. Venezia mente; ma piuttosto nel fatto che essa è fedele a se stessa – nel fatto che essa realizza in sé, con una coerenza imperterrita, il suo senso singolare della interrelazione tra “spazio” e “tempo”. È vero ch’essa dà l’impressione dell’artificiale, cioè di essere poco natura e molto creazione dell’uomo: ma questa è la sua natura, dopo tutto.

Appare ovvio che è opportuna una lettura della città in chiave anti-classica: fondata non su una struttura prospettica dello spazio urbanizzato, ma sulla continuità temporale di codesto spazio (il carattere sia cromatico che ritmico).

Raggiungere la “soluzione temporale” non significa risolvere il tempo in una sua immagine. È invece la spazialità intesa come struttura spaziale dell’Esserci, e dunque non si identifica col tempo, non lo rappresenta, è tempo.

Il “bizantismo” veneziano bisogna intenderlo come orientamento generale del “gusto”. Il motivo non è soltanto architettonico, come lo sarebbe in un’altra città, ma diviene squisitamente urbanistico: non sta a sé, la facciata non è relativo al corpo del palazzo ma al canale di cui definisce lo spazio: esse, legate insieme, sono le pareti dello spazio interno – il canale, ed è indice della temporalità dell’immagine e porta ad una prevalenza dell’urbanistica sull’architettura. Il primum non è l’edificio singolo ma ciò che lo lega agli altri in una continuità figurativa, che è il canale, la calle, infine, la città intera. Tale continuità riconsacra il carattere fondamentale di superficie coloristica dell’immagine di Venezia. L’immagine di Venezia è arrestabile in un punto chiuso dello spazio e del tempo, è una immagine fatta di colore e di ritmo che si invera soltanto nel processo temporale.

Venezia è una città che si vive: proprio questo suo potere di identificazione tra il nostro tempo in atto e la sua forma, racchiude il segreto della sua attualità. Proprio perché l’immagine, la forma di Venezia non è data una volta per sempre, ma continuamente si discioglie e si ricompone: ad ogni istante si crea di nuovo entro il nostro tempo – esempio pregnante di quanto il criterio “classico” sia inadatto a giudicare una forma d’arte anticlassica.

A Venezia riconosciamo una forma che obbedisce ad una “logica” di inflessibile coerenza. In ragione a codesta “logica” le facciate dei palazzi veneziani non debbono legarsi al corpo dell’edificio, esse creano un continuum cromatico che “forma” lo “spazio interno” del canale o delle calli, dunque è necessario che si stacchino dal corpo dell’edifico per legarsi in una ininterrotta unità di superficie.

Venezia non mente dunque. Mentirebbe, soltanto se non fosse l’opera d’arte: se fosse puro esistere. Tra il nulla dell’esistere e l’astrazione dell’essere si pone, la forma concreta dell’arte. E proprio perché questa forma, a Venezia, perpetuamente si crea, essa con più immediatezza riscatta, in noi, il conflitto tra l’esistenza e lo spirito. Il colore e il ritmo della sua forma è vita e insieme più che vita. Venezia è una città che senza dubbio ha vissuto la propria avventura: non chiudendosi in se, ma protendendosi alla conquista del mare. La civiltà veneziana non ammette che le proprie strutture – quindi anche quelle dei linguaggi artistici – siano predeterminate da una ratio, che le sottragga all’esperienza, al tempo vissuto. Anzi è tutta intrisa di tempo; e il suo “miracolo” è che con questa inafferrabile tra le dimensioni, sia riuscita a costruire la propria forma, e a dominare il proprio destino.

Tempo e forma

Scritti 1935-1977

A cura di Andrea Cavalletti

1996, Quodlibet

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