La vera e prima Riva dei Schiavoni (pron. S-ciavoni è quella che va dal Rio de Palazzo al Rio dei Schiavoni o del Vin, ed è soltanto di essa che intendiamo par lare. E’ questo uno dei luoghi più beffi di Venezia, al cospetto del Bacino di San Marco.
Non sappiamo cosa ci fosse qui fino al secolo XI: forse soltanto un digradante arenile, un’ansa di palude.
Ma la Riva, se tale poteva chiamarsi, era allora strettis e sima, non più di qualche metro (come ancora segnata da
listelli di marmo bianco) e fu solo per decreto del Senato in data 5 agosto 1780 che si provvide al suo allargamento,
fino a portarla all’altezza del già protratto Molo.
Ciò avvenne sotto la direzione dell’illustre e bene merit architetto Tomaso Temanza « facendosi prima un battuto di pali e sopra di esso stendendosi due mani di scorza di larice per lungo e trasversalmente, indi alzandovi col fango del Canal Grande, di cui si era ordinata 1’escavazione, jn maniera che la Riva suddetta avesse 9 piedi e mezzo di altezza e circa 80 di larghezza ».
L’opera fu compiuta nel 1785; il Temanza morì nel 1789.
Ma torniamo alla vecchia e stretta Riva. Sappiamo che fu lastricata con pietra cotta nel 1324.
Sappiamo pure che gli Schiavoni vi avevano, parte in terra e parte in acqua, i loro stazi.
NeI 1492 tutta la Riva venne restaurata dal Ponte de la Pagia ai Forni di San Martin, conservando appieno il suo carattere portuale.
C’era posto per le barche di Grado e cli Marano, ma l’assoluto predominio era per i Dalmati: per le città di Zara, di Sebenico, di Traù, di Spaiato e per quelli delle isole della Brazza, di Pago e di Lèsina (Liesena per i Veneziani).
Ancor oggi vi sono lì infisse all’orlo della sponda salde pietre su cui si legge: « Fine di stazio degli abitanti della Brazza e di Lesina » « 26 aprile 1729 - Stazio di piedi 80 per cinque burchi da vino ».
Altre diciture consirnili, logorate, sono divenute illeggibili, ma valgono pur esse a testimoniare l’antica funzione di banchina portuale. Le pietre di cui si è detto stavano evidentemente ai margini della Riva prima del suo allargamento del 1782, anno in cui furono tasportate e collocate nel nuovo sito.
Scrive il Pavanello ne « La Riviera di San Marco »: « I Patrovich godettero fin dal 1600 il diritto di preferenza e nel 1711 fu piantato per pubblico decreto, come segno della loro stazione, una grande bandiera, che venne in seguito rinnovata ».
Godette poi di tal diritto, a vita, Giacomo de Marin di Catturo. « A un certo Pietro Giavonich, che usufruiva di uno di questi posti abusivamente, fu tolto e dato agli Spalatini. Gli Ivanovich qui fecero la loro ricchezza. E sulle proprie barche o sulla Riva gli Schiavoni tenevano i loro commerci ».
Essi vi vendevano i grossolani panni di Rascia (rasse) per coprire le gondole, le grosse coperte dette schiavine, la castradina (carne di montone affumicata), le boiane (sardine pescate nella Boiana), candele di sego, formaggi salati, prosciutti e, più tardi, anche polvere di. crisantemo per addormentare i « mussati ». Per i loro traffici si valevano di casotti di tavole (furatole) o di semplici banchi.
« Da quanto si è detto è lecito arguire quale chiasso dovesse venire da tutta questa gente sempre in rissa, poco disciplinata, che era giunta a macellare sulla Riva liberamente, in barba alle leggi, giacchè nel 1768 ciò era proibito, e fu gioco forza ripetere la proibizione più tardi. Il vicinato arcistufo non faceva che protestare » (Pavanello).
Ma fu proprio la relazione efficacissima (e scritta in buona lingua) di un illustre dalmata, dello zaratino Simone Stratico, professore di matematica e navigazione all’Univerità di Padova, fatta agli Ill.mi et Ecc.mi Signori Savi et Esecutori alle Acque », che indusse la Signoria ac attuare il grande lavoro dell’allargamento e del banchinamento dal Molo alla Ca’ di Dio. Concludeva la relazione:
« L’allargamento progettato è indicato dalla natura; non altera il corso dell’acqua nel canale; assicura l’erario da una grave periodica inutile spesa; promette, con tutti gli altri muramenti di questo genere, più spedito corso dell’acque vicino alla riva, e perciò nell’avvenire minor imbonimento da quella parte ».
Durante il corso dei lavori, nel marzo 1783, avvenne un orribile uragano, che compromise il compimento dell’opera. Ne andò di mezzo il povero appaltatore, che si vide ritardato il dovuto pagamento. Disperato, rivolse una supplica ai Savi et Esecutori alle Acque. Dopo aver premesso che « il muramento della Riva dei Schiavoni, opera degna della Grandezza e delle Cogitazioni di VV. EE., che formando nei fasti della Repubblica, un’epoca Luminosa, eccita l’ammirazione delle più colte Nazioni », scriveva:
« Abboccato sino nel 1780 nel Pubb.co Incanto il lavoro da me Francesco Resegatti quandam Bortolo servo e suddito riverentissimo, mi colse quasi foriera di maggiori sciagure, l’orribile Oragano nel marzo 1783 apportandomi rovine immense ed inenarrabili danni. Guai a tutta quella deliziosa Riviera... Si ricordan bene gli ancor sbigottiti abitanti, l’orror di quella notte funesta, e serbano presente nell’anima l’aspetto terribile dei Legni, e Navigli. d’ogni portata spinti dal vento, e dal marino fiotto inalzaiti sopra l’apena eretta sponda, che non intieramente compiuta... tutta si scosse, e con gravissimo universale di Lei e de Casseri detrimento, richiamò le mie sollecitazioni, sbilanciandomi la Economia ».
Il lavoro fu sospeso per nove mesi e « con ciò esposto li materiali d’ogni genere ad immensi derubamenii e saccheggi ».
Rammentava però che « Su perno soccorso mi guidò, e sebene esangue e presso che morto alla vita civile, ho pur l’opera terminata e resa degna della Pubblica approvazione », e seguitava:
« Si degnino per effetto di sola Clemenza e di Pietà, dall’altezza di quel posto, ove l’Altissimo per felìcità dei sudditi le ha collocate, piegar l’occhio compassionevole sopra quel Foglio, che rispettoso e tremante unito assegno », concludendo:
« M’abbandono intieramente con sommissione, con fiducia sottostarò rassegnato... alla Clemenza e alla Giustizia del Veneto Serenissimo impareggiabile governo ».
Il povero Resegatti dovette attendere fino al 1790 per vedere accolta la sua istanza ed ottenere il pagamento delle spese straordinarie che aveva dovuto sostenere.
Ad opera compiuta anche la Riva fu sgomberata da casotti, da banchi, da stazi, da ancoraggi fissi, per essere « comoda al passaggio dei sudditi » ed essere conforme « al decoro e all’ornamento della capitale ». Caduta in quegli anni laRepubblica, permasero stranamente in questo tratto della Riva due « spazi chiusi da grigiuole, li ombreggiava,io due grossi alberi, e vi si vendevano uccelli, piante e semenze per i giardini della città. Nel 1838 si distrussero collo schiantarsi degli alberi ».
Un contemporaneo scriveva: « Riguardata ora questa Riva qual monumento... ci gode l’animo di vedervi posto intorno di continuo ogni amore per abbellirla e darle risalto, come opera l’artefice colle perle le più preziose... e non ci può fallire certo il presagio che non tardi molto la demolizione anche delle cinque informi casipole che sembrano costrutte nell’età tribunizia, e deturpano io spazio fra la insigne opera delle Prigioni e la splendida mole dei Bernardo, ora Albergo Reale. Oh sì, in quell’area godremo di scorgere forse in breve più degnamente eretto qualche edificio stupendo, che bell’anello diventi fra quei tanto diversi generi di pur brillante architettura ».
Un secolo dopo doveva sorgervi il Danielino. Non stiamo qui a discuterio. Poniamo mente piuttosto all’eccessivo ingombro di passerelle, pontoni, pontili, cartelli pubblicitari, insegne, antenne, chioschi, bancarelle ed altro, in questo tratto della Riva, proprio accosto al Ponte de la Pagia e alle moli monumentali di Ca’ Dandolo e delle Prigioni.
(mi ricordo ancora adesso che da ragazzo, uscendo dallo Stadio di S.Elena, facevo sosta con mio papà proprio in uno di quei locali sulla riva per gustare i deliziosi “folpetti” caldi che l’oste vendeva fuori dalla porta del proprio locale: ora sono stati abbattuti par far posto all’albergo Danielino: un pugno in un occhio per chi guarda la Riva dal Bacino di S. Marco!!!)
Gigio-Luigi Zanon