Venezia e quel piacere di smarrirsi, di Orhan Pamuk

VENEZIA E QUEL PIACERE DI SMARRIRSI


Di Orhan Pamuk, da “la Repubblica” del 21/7/2009

E adesso – mi dico – supero questo ponte elegante e poi svolto a destra, e poi a sinistra, avanzo fino allo sbocco del passaggio angusto tra due alti palazzi, e mi ritrovo in quel magnifico campo. Attraverso quel ponte elegante, svolto a destra, poi a sinistra e cammino fino allo sbocco del passaggio angusto tra due alti palazzi (sì, sì, sta proprio lì in mezzo, il vecchio distinto lampione stretto tra due muri; sì, certo, mi ricordo anche di quello): ma la strada va a finire in tutt’ altro posto, e non mi porta in quel campo tanto bello.

Un attimo di smarrimento,e poi provo a convincermi che mi trovo nel “bel campo”: e non sono diverso da uno che si sveglia da un incubo e cerca di persuadersi che la stanza in cui si trova è proprio quella sua solita, come suo è il letto dove è sdraiato.

Mi fermo, mi ripeto che devo inquadrare lo slargo da un altro scorcio, e voglio ritornare al punto di partenza. Mi volto indietro, per rendermi conto di essermi fatto sfuggire anche quella calle stretta stretta che mi ha condotto fin lì. Al posto del sentiero appena percorso compare una visione ancor più impressionante di quel “bel campo”; sul pelo dell’ acqua ferma e verdognola tra due palazzi alti intrisi d’umidità che lentamente affondano, si riflettono vivaci i colori di un terzo edificio.

Nello specchio dell’ acqua immobile colgo l’azzurro del cielo, il candore di una nuvola, il verde delle piante sul balcone. Osservo le alghe attaccate al ciglio del rio e mi ricordo di avere già assistito a quella visione. Tu di qui c’ eri già passato e avevi già contemplato lo specchio dell’ acqua immobile proprio come stai facendo adesso – mi suggerisce la memoria.

Solo che, con questo mio perdermi per calli, per campi, giù per stretti vicoli ciechi, viene meno anche la fiducia che nutro nella forza della mia memoria. Resto comunque uno che viene da Istanbul, cioè da una città dove le strade non corrono parallele e di rado s’ incrociano a perpendicolo, dove anzi in genere avanzano a tentoni, contorte, con salite e discese; a Venezia non dovrei dunque perdermi.

La gente come me si districa tra le strade delle città incidendosi nella mente le immagini dei luoghi, diversamente da quelli di New York, che fissano i numeri delle vie. Il meandro angusto, il muro di mattoni rossi coi vasi di fiori, il ponte elegante, il lampione intaccato dalla ruggine, la porta d’ ingresso del cinema: ecco, è in questo modo che la mia memoria visiva procede a una registrazione. E con questi quattro o cinque elementi mi costruisco dei modelli mentali, li dispongo su una scaletta, e quasi secondo i balzi del cavallo nel gioco degli scacchi, mi muovo verso la meta.

Tali schemi visivi imparati a memoria funzionerebbero come i pezzi di un puzzle: una volta che tutte le tesserine sono ricomposte, allora vengo a conoscere tutti gli indirizzi, le vie della città…, e non sono più tenuto a passeggiare da turista, una mappa alla mano. Pure, alla fine della seconda settimana del mio soggiorno veneziano, continuo a perdermi, e spesso anche, tra le calli. Sono convinto di essere arrivato proprio nello slargo inseguito (che so, mettiamo Campo Santa Margherita?), e invece mi ritrovo, guarda un po’ , da tutt’ altra parte.

No, però, attento: questo qui non è un luogo del tutto estraneo: c’ ero già stato qui… Una sensazione che mi irrita, anziché darmi gioia: per quale ragione non riesco a incidere nella mente con la mappa di Venezia? mi domando contrariato. E intanto ammiro stupito la bellezza del campo che ho di fronte. E se proseguissi da qui? E se cedessi al richiamo delle calli? Ma anche questo insinuante invito ha il solo scopo di confondermi, quasi entrassi in una sala a vedere un film a proiezione già avviata.

Ero bambino; avevamo passato un’ estate intera a Istanbul, in pieno centro. Con mio fratello frequentavo ogni giorno imperterrito quei cinema dove si programmavano due film, l’ uno di seguito all’ altro. Eravamo sempre in anticipo, e c’ era l’ occasione di entrare nella sala per seguire la pellicola già iniziata. Dovevamo forse passare il tempo a ciondolare nell’ atrio polveroso e umido del locale? O ci conveniva invece vederci subito il secondo tempo dell’ ultimo film, e poi tutto il primo, e finalmente rivedere daccapo e intero tutto il secondo? Le possibilità ci confondevano col loro ventaglio: avresti insomma detto che ci eravamo perduti nel reticolo delle calli di Venezia.

Più tardi, ricordo che quel campo nuovo e inaspettato si trova all’ altro capo di Venezia, sulla riva opposta del Canal Grande. Almeno credo. Un punto della mia mente, nascosto e un po’ stanco, ma nondimeno ostinato e autoritario, mi ripete adesso, simile a un computer che si ostina su un errore, che non sono nei pressi del Campo Santa Margherita, e mi trovo invece da tutt’ altra parte. Forse preso da tanti pensieri rivolti a tante cose, ho camminato troppo a lungo assorto, mi dico, in cerca di una spiegazione.

E così, questa mia mente che confonde i luoghi, si mette a rimescolare anche i tempi. Potrei magari, vero e proprio sonnambulo, aver attraversato i ponti, girovagato di calle in calle ed essere arrivato fin qui? Esito tra la figura del mondo che percepiscono i miei occhi e quella che la mia mente vorrebbe contemplare. Ma continuo a procedere, abbandonato all’ incanto delle visioni stupende, al fascino di essere qui, in un angolo di Venezia.

Continuo ad avanzare, e a ogni passo vivo dentro di me la sensazione di lasciarmi alle spalle un pezzo intricato e difficile della mia esistenza… Non vado più alla ricerca del luogo in cui vengo a trovarmi sulla mappa di Venezia. Le gambe mi portano spontanee alle mete che i miei occhi desiderano. E se la mia mente la smette di ostinarsi a ruotare intorno al progetto di vita che mi sono prefisso, allora il mondo si trasforma in una terra straordinaria di meraviglie, pullulante di opportunità misteriose, di svariate, invitanti novità.

Stupito della mia libertà, oltrepasso le nuove calli, i muri decrepiti, i pertugi,i cortili assopiti, le case con la biancheria distesa sui fili tra le finestre. Ho constatato adesso che è possibile sentirsi liberi sbarazzandosi dei progetti e dei ricordi che uno si conficca in testa… Anche prima sentivo che l’oblio avrebbe reso l’uomo felice e libero, e non capivo quei personaggi che nei film, privati della memoria in seguito a un incidente, cercavano di recuperare il loro passato, con le sofferenze che il processo comporta. Una vita nuova è una visione sempre più bella.

È con questi pensieri, i gomiti puntati sulla spalla di un ponte, che sotto, nello specchio bagnato ed immobile, colgo due antichi palazzi che affondano piano piano, e l’azzurro del cielo, il candore di una nuvola, il verde delle piante nei vasi. E mi cresce dentro la sensazione che il tempo si è fermato. Poi un uomo, in una lingua che non riesco a indovinare, mi chiede la strada. Ha una mappa, eppure si è perduto. Ci mettiamo insieme a cercare un luogo, e non tra le calli, ma su quella mappa che lui tiene fra le mani.

ORHAN PAMUK

(traduzione di Semsa Gezgin e Giampiero Bellingeri)

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Un particolare della mappa di Venezia di Jacopo de’ Barbari del 1500


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